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Così si moriva a Palermo. E per 30 anni non si è saputo perchè

Scritto da Salvo Palazzolo il 27 gennaio 2010
Pubblicato nella categoria Il blog inchiesta

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Due furono strangolati e tre fucilati, il 4 agosto 1973, solo perché avevano fatto troppo chiasso al ristorante e risposto male a uno dei padrini più riveriti di Cosa nostra, che si intratteneva a pranzo con uno stimato avvocato. Oggi quel padrino è un collaboratore di giustizia, si chiama Gaetano Grado: a stento, davanti ai magistrati della Procura di Palermo, ha ricordato i nomi di quei ragazzi poco più che ventenni. “Penso di averli appresi qualche giorno dopo dal giornale”, dice. Ma ricorda benissimo l’affronto subito: “Prima un cameriere, poi il padrone del ristorante cercarono di rimettere ordine, i ragazzi avevano iniziato ad alzare la voce e a litigare. Uno di loro, penso si chiamasse Paolo Morana, all’improvviso si sbottonò la giacca e rivolgendosi apparentemente al suo amico Alfredo Dispensa pronunciò parole offensive nei miei confronti, mostrando due pistole che portava alla cintola”. Grado non si scompose. Finì il pranzo. E poi commissionò il delitto.

È una Palermo che sembra senza speranza quella che scorre nelle centinaia di pagine riempite da Grado. Il racconto degli undici delitti che l’ex boss di Santa Maria di Gesù confessa è essenziale, asciutto. Il padrino di un tempo non si scompone mai. Il pubblico ministero gli chiede: “Vuole una sigaretta?”. Grado risponde: “No, guardi, quelle non le fumo, non si offenda. Fumo queste”. E ritorna a elencare i suoi morti.

Il 4 agosto 1973 anche Tommaso Santoro, Francesco Paolo Morana e Giuseppe D´Amore. Il 7 gennaio 1982 Michele Graviano, il padre di Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio: fu l´inizio della stagione della vendetta contro Riina e Provenzano, diventati i nuovi padroni di Cosa nostra.
“Sei mesi dopo la morte di Stefano Bontade venne ucciso mio fratello – racconta Grado, che è assistito dall’avvocato Monica Genovese – a quel punto decisi di andare in Spagna, a Benidorm. Di tanto in tanto scendevo a Palermo, uccidevo i capi delle famiglie mafiose alleate con i Corleonesi e tornavo in Spagna”.

Il rosario degli omicidi di Grado prosegue con la data del 12 novembre 1983. Tocca a Salvatore Zarcone: “Volevo convincerlo a passare dalla nostra parte, ma sospettavo che “Sassolino”, così lo chiamavamo, facesse il doppio gioco e che di fatto fosse passato con i Corleonesi”.
Poi, il 12 luglio 1988, a Bagheria, cade Pietro Messicati Vitale. Il 29 marzo 1989, a Casteldaccia, Francesco Baiamonte. Il 14 aprile, ancora a Casteldaccia, Antonino Aspetti. Il 9 maggio, a Palermo, Domenico Russo. Il pentito scorre anche i nomi dei complici: Agostino D’Agati, Gabriele Giglio e Giuseppe Di Peri, nel 1989. Il pentito ribadisce che nel commando non ci fu mai il cugino Salvatore Contorno, già all´epoca pentito, che venne arrestato il 26 maggio di quell´anno proprio con Grado, in una villetta di San Nicola l’Arena.

Il collaboratore fa anche i nomi dei complici negli altri delitti: Rosario D’Agostino, Franco Mafara, Salvatore Micalizzi, Antonino La Rosa, Rosario Riccobono e Stefano Giaconia. Ma sono tutti morti. Alcuni uccisi a loro volta. Solo uno è sopravvissuto, Salvatore Riina. E anche per lui il sostituto procuratore Ambrogio Cartosio ha chiuso l’indagine, chiamandolo in causa per la strage del 4 agosto 1973. “Uscito dal ristorante, alle due – ricostruisce Grado – andai a trovare Riina, in una cava a San Ciro Maredolce. Alfredo Dispensa, accompagnato da Antonino Tarantino, era corso a scusarsi. Gli offrimmo da bere. Si scusò ancora, ammise pure di avere ammazzato assieme ai suoi compagni Gino Castellese, che era parente dei boss Di Carlo, di Altofonte. Dispensa fu legato e strangolato”.

Poi fu il momento degli altri tre: “Stavano sempre in una pescheria di via Gustavo Roccella – così prosegue il racconto di Grado – dissi a Riina che dovevamo andarli ad ammazzare subito, quei ragazzi. Quasi mi rimproverò: Tanino, ma lascia stare, tu cosa devi dimostrare ancora dopo tutto quello che hai fatto?”. Riina e Grado mandarono i loro uomini a punire quei ragazzi di via Roccella che volevano fare una banda fuori dalle regole di Cosa nostra. E per trent’anni nessuno ha mai saputo perché fossero stati uccisi. “I corpi degli strangolati – svela oggi Grado – sono sotterrati lungo la strada che dalla chiesa di San Ciro arriva a Villabate”.

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