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Il tesoro della Chiesa di Palermo e don Pino Puglisi

Scritto da Salvo Palazzolo il 15 giugno 2011 |  
Pubblicato nella categoria Senza categoria

Ho scritto ieri su “Repubblica” di un argomento di cui si è sempre saputo ben poco, il patrimonio della Chiesa di Palermo.

Case ai privati, la Curia sotto accusa

Monsignor Pecoraro, ex economo della diocesi: “Un patrimonio gestito male”

Un dossier di 28 pagine sta agitando la Chiesa di Palermo. È stato spedito al cardinale Paolo Romeo, al suo vicario generale Carmelo Cuttitta e agli altri vicari diocesani. Ma non solo. È arrivato anche a una quarantina di sacerdoti, con un´intestazione che è già preludio di temi delicati: «Mi rivolgo a quei confratelli che possono influire positivamente al corso della storia palermitana di questo secolo», ha scritto l´autore del dossier. Perché il tema che promette di affrontare entra nelle viscere non solo della Chiesa di Palermo, ma anche della città. È il tema del patrimonio milionario della diocesi, alimentato da donazioni ed eredità che si perdono nella notte dei tempi. Come è stato gestito questo grande patrimonio? Com´è gestito oggi?
Queste sono le domande che si pone l´autore del dossier, che è uno dei nomi più noti della Chiesa di Palermo: monsignor Giuseppe Pecoraro, che dal 1976 al ´95 è stato l´economo della diocesi e ha lavorato al fianco del cardinale Pappalardo. Lo hanno spesso dipinto come un potente della Chiesa, ma adesso che non è più neanche parroco monsignor Pecoraro cerca un appartamento da prendere in affitto, e intanto è ospite di parenti.
Nei mesi scorsi ha scritto al delegato per i beni temporali, monsignor Giuseppe Randazzo, chiedendo di poter usufruire di uno degli appartamenti che la diocesi possiede in via Bonello, all´angolo con vicolo del Pellegrino. Ma non gli è arrivata risposta. Così è nata l´idea del dossier. E il primo capitolo è proprio quello riguardante gli appartamenti che nel corso degli anni erano stati acquistati per i sacerdoti. Nel 1980, durante la gestione Pappalardo, un privato ne donò quattro. Altrettanti furono acquistati in via Os 1, nei pressi di corso Tukory. Ai sacerdoti senza casa aveva pensato anche il cardinale De Giorgi, il predecessore di Romeo, che aveva destinato allo scopo una palazzina di piazza Sett´Angeli, pure questa acquistata da Pappalardo.
Pecoraro lamenta che tutti questi appartamenti sarebbero oggi affittati a privati e non ai preti che ne hanno bisogno. Nel suo dossier, l´ex economo parla anche di altri immobili della diocesi: «Via Novelli, corso Vittorio Emanuele 486 e 488».
A chi sono affittati dunque gli appartamenti destinati ai sacerdoti senza casa? E, soprattutto, a quale canone mensile? Monsignor Pecoraro lamenta il fatto che da cinquant´anni non esista una vera e propria casa del clero nella diocesi. E la conclusione del dossier è destinata a innescare un dibattito: «La Chiesa non può farsi guidare unicamente dalla logica del profitto. Ecco perché continuo ad attendere una risposta alla richiesta di affittare un appartamento. Non si può accettare che il clero anziano o ammalato sia considerato rottame».

Ecco un’intervista a monsignor Pecoraro, che rivela alcune cose inedite a proposito del rapporto fra don Pino Puglisi e la Curia di Palermo. “Repubblica” ha titolato così:
“In quei conti c´erano due miliardi ma a padre Puglisi solo 20 milioni”

Monsignor Pecoraro, grazie al suo dossier sul patrimonio della diocesi si scopre che i palermitani sono stati sempre molto religiosi e generosi. Come è stata gestita questa generosità?
«Purtroppo non sempre bene. Basta riflettere su cosa è accaduto a tre grandi patrimoni: anzitutto quello dell´opera pia Monsignor Custo, che era in parte del seminario. Ci fu un periodo in cui fui economo del seminario, ma non responsabile di quel patrimonio. Ebbene, si verificò un contrasto fra il rettore del seminario e il presidente dell´opera pia. Risultato: il patrimonio fu svenduto. Già prima che io diventassi economo diocesano, invece, erano stati venduti i beni della congregazione di Maria Santissima del Fervore. Tanti anche quelli. Infine l´eredità del principe di Fitalia, che fu lasciata alla Chiesa di Palermo all´inizio del Novecento. Ai tempi della guerra c´era bisogno di soldi, è comprensibile. E qualche bene venne venduto. Ma al seminario resta ancora un volume con i censi dell´eredità che dovrebbero essere riscossi».
Nel suo dossier parla anche di un anonimo benefattore che nel 1970 donò 120 mila dollari all´allora cardinale Francesco Carpino. Che fine hanno fatto quei soldi?
«Il cardinale li utilizzò per creare la fondazione “Santa Rosalia” e li depositò alla Banca Commerciale. Fu stabilito che il reddito annuo derivante dall´investimento dei 120 mila dollari in alcune obbligazioni Enel sarebbe andato ai sacerdoti in situazione di particolare bisogno, ovvero all´arcivescovo in caso di sue dimissioni. La fondazione fu amministrata personalmente dal cardinale Pappalardo: per diversi anni l´allora amministratore, monsignor Sarullo, non seppe addirittura nulla della fondazione. Ne venne a conoscenza nel 1976, e fu motivo di contrasti con l´arcivescovo. Così si dimise».
Poi arrivò lei. Cosa accadde?
«Fino al 1980 neanch´io seppi nulla della fondazione Santa Rosalia. Poi il cardinale mi disse che i fondi si trovavano allo Ior, in Vaticano, e che dovevano essere amministrati regolarmente dall´ufficio amministrativo. Andai col cardinale a Roma, dove fui presentato a un funzionario dello Ior suo amico. Ci disse che in dieci anni la fondazione aveva raddoppiato il suo valore. Tornando a Palermo, azzardai l´ipotesi di acquistare con quella somma sette grandi appartamenti e di fruire del fitto. Ma il cardinale mi interruppe bruscamente dicendomi: “Pensi sempre a mattoni da edificare. Restano allo Ior e li amministro io”. Da quel momento non seppi più nulla della fondazione».
Pappalardo le passò mai denaro del fondo da inserire nelle entrate della diocesi?
«Dal 1983 al 1990, 41 milioni 174 mila 800 lire».
Hai mai saputo che entità avessero i due fondi?
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Nel ´93 don Pino Puglisi chiese un aiuto a Pappalardo, per acquistare una palazzina di fronte alla chiesa di San Gaetano, destinata a diventare centro sociale. Al parroco di Brancaccio, che qualche mese dopo fu ucciso da Cosa nostra, arrivarono venti milioni di lire dal cardinale, per gli altri 200 milioni dovette approntare un mutuo.
top quality medications. prednisone 20 mg street price. instant shipping, overnight. «Puglisi me ne parlò, si aspettava un aiuto maggiore da parte della diocesi. Io cercai di aiutarlo dandogli indicazioni per il mutuo».
Ma allora come furono utilizzati i due miliardi gestiti dal cardinale?
«Sono state fatte altre opere di bene. Io so che c´era un sacerdote che aveva molti debiti di gioco, per un centinaio di milioni, e Pappalardo li ripianò. Altri soldi furono utilizzati per le necessità della facoltà teologica. Duecento milioni di lire, invece, per l´acquisto della sede del seminario».
Nel ´93 la polizia trovò un assegno firmato da Pappalardo negli uffici del costruttore di mafia Salvatore Sbeglia: quali rapporti la Curia intratteneva con lui?
«Io non ho mai avuto alcun rapporto diretto con la ditta di Sbeglia. Poi ho appreso che era il factotum cui ci rivolgevamo per tanti piccoli lavori ad avere rapporti con quell´imprenditore».
cheap atarax, buy cheap atarax, atarax 25 mg tablet, atarax 10mg tablets, hydroxyzine Si sente di fare autocritica per alcuni rapporti economici intrattenuti durante la sua gestione con alcune aziende palermitane?
«Siamo stati sempre molto prudenti. E non è mai accaduto nulla». The feedback can come online free essay writer from an online teacher or from technology embedded in the program, mr

Dove fu ucciso Mauro De Mauro

Scritto da Salvo Palazzolo il 14 gennaio 2011 |  
Pubblicato nella categoria Il blog inchiesta

Fondo Patti, accanto al Velodromo Paolo Borsellino. Qui fu ucciso il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, il 16 settembre 1970. “Andate in via Patti, verso la Zen. Quando finiscono le case, sulla sinistra, troverete la proprietà di Ciccio Madonia. Lì fu portato De Mauro la sera del rapimento. Me l’ha confidato Emanuele D’Agostino, uno dei sicari. Lì fu strangolato il giornalista e il suo corpo gettato in un pozzo, che qualche tempo dopo venne ripulito”. Il verbale dell’ultimo pentito di mafia, Rosario Naimo, sembra una guida agli orrori di Palermo. Ma è anche un pezzo di storia ancora non scritta, perché per quarant’anni nessuno ha saputo dove fosse finito De Mauro dopo essere stato rapito sotto casa.
Una parte di fondo Patti resta di proprietà dei Madonia. Un’altra è dello Stato, dopo la confisca scattata alcuni anni fa. Ma i parenti dei boss sembrano controllare ancora tutta l’area.
Oggi pomeriggio, scattando queste fotografie, ho ripensato a tanti altri luoghi di Palermo che sono ancora inaccessibili.

Tornando in redazione, ho scritto:

Quarant’anni dopo, un pentito ha svelato dove fu ucciso e seppellito il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, rapito dai sicari di Cosa nostra la sera del 16 settembre 1970. “Fu portato a fondo Patti, in una proprietà dei Madonia. C’era Totò Riina ad attenderlo. Il giornalista fu subito soppresso e gettato in un pozzo”. A parlare con i magistrati di Palermo Sergio Demontis e Antonio Ingroia è Rosario Naimo, “l’ater ego di Riina in America” come l’hanno sempre chiamato gli altri pentiti. Oggi ha 65 anni, era ricercato dal 1995 per scontare una condanna a 19 anni per traffico internazionale di stupefacenti: nell’ottobre scorso, stava passeggiando tranquillamente per il centro di Palermo quando fu colto da un malore e cadde per terra. A due finanzieri che lo soccorsero sussurrò: “Vi metto duemila euro in tasca se mi portate all’ospedale e non diciamo niente a nessuno”. Ma dieci minuti dopo, Rosario Naimo era già in caserma.

Qualcuno l’ha già soprannominato “l’ultimo Buscetta”. Naimo è un pezzo di storia criminale della Cosa nostra siciliana e americana. Pochi giorni dopo il suo arresto ha deciso di collaborare con la magistratura: “Lo faccio per amore della mia giovane moglie e dei due figli che mi ha dato”, così ha messo a verbale davanti ai pm Marcello Viola e Francesca Mazzocco. E da allora il boss sta svelando i retroscena di centinaia di omicidi, di affari e complicità. “Io non sono mai stato coinvolto direttamente in fatti di sangue commessi in Italia – ha tenuto a precisare – ma tutti si venivano a confidare con me quando tornavo ogni tanto dall’America”.

Così fece anche uno dei sicari di Mauro De Mauro, Emanuele D’Agostino (che è deceduto da tempo). “Era il 1972 – ha spiegato Naimo – a settembre ero tornato a Palermo per il matrimonio di mia sorella Rosa Maria. Andai a salutare alcuni vecchi amici, tra i quali D’Agostino. Ci incontrammo in un ristorantino vicino alla stazione centrale. Lui spavaldo mi disse: io sono quello che ha preso Mauro De Mauro e poi ho fatto pure la strage di viale Lazio”.

Il racconto di Naimo è stato depositato questa mattina dal pm Demontis al processo per l’omicidio De Mauro (unico imputato, Riina). Eccolo: “Quella sera, sotto casa sua, al giornalista lo chiamarono con un altro nome. D’Agostino gli disse: ‘Lei ha insultato mia moglie, come si è permesso’. In due salirono sulla macchina di De Mauro. Lui ripeteva: ‘Io sono Mauro De Mauro, state sbagliando persona’. Ma loro misero in moto. ‘Adesso andiamo da mia moglie e vediamo se non sei tu’, disse ancora D’Agostino’. De Mauro gridava che c’era uno scambio di persona”.

Ci misero una decina di minuti per attraversare la zona bene della città. Viale Campania, via Ausonia, viale Strasburgo. Fino a fondo Patti, una tenuta dove il boss Francesco Madonia aveva un allevamento di polli. Si trova nella zona di Pallavicino, dietro al velodromo di Palermo.

“Alcuni anni dopo il pozzo dove era stato gettato il corpo di De Mauro fu ripulito, su disposizione dello stesso Madonia”, dice ancora Naimo.

Oggi, una parte di Fondo Patti è proprietà dello Stato, perché confiscata qualche anno fa. E’ un terreno incolto e abbandonato, un altro degli scandali dell’antimafia. Adesso ancora di più amaro, perché in quel terreno è stato ucciso Mauro De Mauro, il cronista che aveva scoperto un grande segreto, ancora oggi misterioso. Forse legato alla morte di Enrico Mattei. Forse, al golpe Borghese. Sono le due piste battute dal processo in corso.

Naimo non sa perché fu ucciso De Mauro. Però, ha raccontato che durante una delle sue visite a Palermo, all’inizio degli anni Settanta, finì ad un summit in sui si discusse di un colpo di stato e della partecipazione di Cosa nostra. “C’erano Luciano Liggio, Riina e tanti altri – ha raccontato – eravamo in una casa di campagna, a Catania”. Il seguito delle rivelazioni di Naimo è ancora coperto dal segreto istruttorio.

Lui, affiliato a Cosa nostra nel 1965 ed emigrato a Detroit tre anni dopo, è solo all’inizio del suo racconto.
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